venerdì 7 febbraio 2014

#coglioneNo nel paese dove la creatività non si mangia.

Mi sono imbattuta nella visione di Art&Copy, documentario del 2009 girato da Doug Pray, quando sul web la “campagna” #coglioneNo del collettivo ZERO iniziava a diventare virale, ed ho pensato che mai contrasto sarebbe potuto essere più netto.
Più che contrasto, forse sarebbe giusto parlare di voragine: in Art&Copy vediamo le interviste ad alcuni dei più brillanti creativi nel campo della pubblicità del XX secolo, autori di campagne storiche come I love NY, Think Different della Apple, Got Milk. George Lois, Mary Wells Lawrence, Dan Wieden: guru della creatività, titolari di agenzie che sembrano tutto fuorché luoghi di lavoro, che nel film raccontano le loro idee più riuscite in un lungo (a tratti, devo ammetterlo, davvero noioso) panegirico, volto a dimostrare come proprio grazie alle loro idee siano riusciti non solo a raggiungere l’obiettivo prefissato dal cliente, ma altresì a farlo in modo da cambiare completamente la percezione di una porzione di realtà da parte del pubblico. D'altronde, come dice lo stesso Lois, good advertising change the perception of everything e se lo afferma uno come lui, che è riuscito con successo ad imporre l’immagine di un esordiente Tommy Hilfiger alla pari con i grandi nomi dell’alta moda, non possiamo che essere totalmente d’accordo.
Nei tre video della campagna #coglioneNo, invece, quello che vediamo è la parodia di ciò che accade a molti che lavorano nel campo delle professioni creative in Italia: un idraulico, un antennista e un giardiniere vengono contattati da clienti esigenti che, piuttosto che pagare a fine lavoro, offrono in cambio visibilità o la promessa di future collaborazioni. Storia vecchia, già sentita, che accomuna più in generale chi si trova ad affacciarsi al mondo del lavoro e, più sentitamente, chi con questa “creatività”, una volta capito bene cosa sia, cerca di guadagnarsi da vivere. 
Ho letto molti commenti in rete riguardo #coglioneNo: c’è chi l’ha elevata a riuscita denuncia di un problema reale e  chi, invece, l’ha definita una difesa, un po’ ruffiana, di una situazione non difendibile (secondo Niccolò Contessa su www.minimaemoralia.it, il voler fare i creativi oggi è una aberrazione dei social network così come lo è il voler fare il Grande Fratello per colpa della TV). In realtà, pochi commentatori hanno davvero capito il senso della campagna #coglioneNo (e sicuramente non chi, al pari di Niccolò Contessa, ritiene che il lavoro non retribuito sia una conseguenza non solo di un eccesso di “creativi” rispetto alla reale domanda, bensì anche di una tendenza da parte degli stessi a lavorare gratis per ottenere visibilità). 
Ora, premesso che di gente che voglia fare il “designer” di qualcosa senza tenere in adeguato conto il talento naturale e la necessità di una formazione costante è piena la terra, e che obiettivamente la disponibilità di programmi e strumenti tecnologici a prezzi accessibili dà a molti l’illusione di poter fare i videomaker o i fotografi di moda pur non avendole le oggettive capacità, quello che denuncia davvero la campagna #coglioneNo è come sia facile che venga meno il giusto compreso quando si tratta di una professione ascrivibile alla categoria dei “creativi”. È indubbio che molti, soprattutto in una fase iniziale, accettino lavori poco o nulla retribuiti per ottenere quella visibilità che lavorando con le immagini e le parole è spesso la conditio sine qua non il proprio portfolio e i propri contati non aumentano, ma il vero punto della questione non è il fatto che da entrambe le parti ci sia stata la decisione di portare avanti un progetto senza alcun compenso, bensì quando (ed è questo il mal vezzo denunciato dalla campagna #coglioneNo) questo compenso era stato pattuito e poi, a fine lavoro, si scopre che il budget non c’è più, la crisi ha polverizzato i fondi destinati al pagamento del lavoro e mille altre scuse meschine e infami che chi lavora come grafico o fotografo o designer o regista avrà sentito infinite volte (mentre è decisamente più insolito che accada dopo una cena al ristorante o dopo che l’imbianchino è venuto a pittarci casa). Questo venir meno all'accordo stipulato tra le parti è vergognosamente più semplice quando chi sta di fronte al cliente è non solo una persona giovane, ma professionista in un settore dove la progettualità e l’idea hanno un’importanza decisiva rispetto alla realizzazione materiale. E questo è sinonimo di un atteggiamento più complesso, e più ampio, che si avverte ormai da molto tempo in Italia e che mira ad abbassare, se non a denigrare, le professioni intellettuali e chi decide di intraprendere questa scelta. Fare il grafico o il regista, prima ancora che essere un lavoro creativo, è una professione intellettuale e in questo nostro paese dove ai giovani, e ai giovani che studiano in particolare, spesso viene consigliato di tornare ai campi o di andare al mercato a trasportare le cassette della frutta, è inevitabile che poi si ritenga che quegli stessi giovani che usano la loro mente, le loro idee, la loro fantasia per lavorare non meritino di essere pagati. Perché non fanno un “vero lavoro”, perché il loro è un lavoro che “al massimo porta via mezz'ora”, perché “anche mio cugino sa fare un sito”. Perché, come i creativi protagonisti di Art&Copy affermano, il desiderio di chi lavora seriamente nel campo della creatività è portare anche uno squarcio di bellezza e di stupore in un contesto sempre più piatto, sempre più fintamente capace di stupirsi, sempre più incapace di creare davvero. Creatività è bellezza e la bellezza, spesso, è arte: ma forse proprio per questo noi creativi rimarremo in Italia, dei coglioni; dopo tutto, per parafrasare un politico nostrano, arte, bellezza e creatività non sono cose che si mangiano.

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